Uno dei monumenti più rappresentativi sito nella piazza della città di Castelvetrano, è il Palazzo Pignatelli Aragona, un antico castello comprato all’asta per circa mezzo miliardo delle vecchie lire, per buona parte di proprietà della famiglia Becchina, in minor parte del Municipio dove ha la sua sede, e di una terza famiglia. Il Palazzo è anche la residenza di Gianfranco Becchina, classe 1939, figlio di madre sarda e di una famiglia non molto benestante, trasferitosi a 17 anni in Sardegna dai parenti sardi per vicissitudini sentimentali, dove fonda un’attività col fratello.
Per Becchina è l’inizio di una serie di trasferimenti, assenze, viaggi e ritorni tra cui quello a Castelvetrano dove conosce a Selinunte una ragazza, quella che poi sarà la futura moglie, ma dura poco che riparte in Svizzera dove trova lavoro a Basilea come impiegato di un albergo il cui proprietario era collezionista.
Becchina non perde tempo, gestisce con la moglie la Antike Kunst Palladion commerciando importanti opere d’arte, affreschi, mosaici, statue, reperti archeologici. A metà degli anni Novanta è un affermato uomo d’affari che tratta con i musei di tutto il mondo; torna stabilmente a Castelvetrano dove acquista l’azienda agricola dei Pignatelli, e successivamente all’asta il palazzo Pignatelli, dove prende residenza. Un Palazzo anticamente di residenza nobiliare che Becchina “non può aver comprato senza il consenso dei Messina Denaro”. A rivelarlo fu Angelo Siino, il pentito “ministro dei Lavori pubblici” di Cosa Nostra e vicinissimo a Matteo Messina Denaro. Il perché è ben presto spiegato: Bronson, così soprannominato Siino, racconta che su quel Palazzo per anni ci sono state forti dispute, che un certo Natale Ferraro aveva rilevato il palazzo “e a un certo punto fece la parte del leone”. Ferraro non era mafioso, racconta Siino, ma massone. Una volta rilevato il Palazzo e altri beni dei Pignatelli, Ferraro “non ha lasciato nulla ai Messina Denaro… e per questo fu cacciato da Castelvetrano”. Controbatterà a sua volta Becchina nel 2006, che quel Palazzo era in stato di abbandono, e che nei suoi progetti c’era quello di trasformarlo in hotel.
Era il 1992 quando si cominciò a parlare di Becchina nelle prime inchieste giudiziarie per i suoi presunti legami con la mafia. Furono i collaboratori di giustizia Rosario Spatola e Vincenzo Calcara, a indicarlo vicino sia alla famiglia mafiosa di Campobello di Mazara che a quella di Castelvetrano (quella dei Messina Denaro) per la quale avrebbe trafficato reperti archeologici. L’indagine a suo carico venne poi archiviata nel 1994. In realtà, sono molte le inchieste giudiziarie a parlare di Becchina, come quella del 1993 sull’omicidio del sostituto procuratore di Trapani Gian Giacomo Ciaccio Montalto, ucciso a Valderice nel gennaio 1983.
Fu sempre Rosario Spatola a riferire alla Procura di Caltanissetta che Gianfranco Becchina aveva fornito armi al fratello Calogero, che a sua volta le consegnò al boss Natale L’Ala, che le aveva prestate a Mariano Asaro per uccidere personalmente il sostituto Ciaccio Montalto. Una circostanza non confermata dalle sentenze di quel procedimento e i giudici hanno definito plausibile che Natale L’Ala avesse prestato l’arma fornitagli dai fratelli Becchina ad Asaro, ma escludevano che quest’ultimo l’avesse chiesta per uccidere Ciaccio Montalto.
È del 2001 l’ indagine coordinata dalla Procura di Roma che inquadra Becchina “a capo di una agguerrita organizzazione criminale dedita da oltre un trentennio al traffico internazionale di reperti archeologici, per la gran parte provenienti da scavi clandestini di siti italiani ed esportati illegalmente in Svizzera per essere poi immessi nel mercato internazionale”. Nell’ambito di questa inchiesta vengono sequestrati cinque magazzini a Basilea in cui furono rinvenuti migliaia di reperti rubati recuperati con scavi clandestini e depredazioni di siti archeologici. Viene scoperto anche l’archivio privato di Becchina con più di diciassettemila documenti e quattromila immagini di reperti. Becchina viene arrestato, ma il processo si conclude con la sopravvenuta prescrizione dei reati. Sempre in questa indagine si ipotizzava un legame con Cosa Nostra trapanese.
Magazzini svizzeri dai quali sarebbero venuti fuori nella stagione stragista 1992-1993 opere d’arte che sarebbero servite come merce di scambio tra la mafia e lo Stato, attraverso uomini dei Servizi Segreti e dei Carabinieri, per ottenere benefici per i detenuti mafiosi.
Una passione dei Messina Denaro per l’arte che nelle diverse indagini condotte tra Palermo, Roma e la Svizzera, ha ricostruito il filo che unisce la Sicilia con la Svizzera dove finirono una consistente parte di reperti archeologici (del cui rifugio svizzero Becchina avrebbe avuto le chiavi) del Parco di Selinunte dove fu riconosciuto uno dei primi tombaroli Francesco Messina Denaro, padre di Matteo che in uno dei tanti “pizzini” scrisse che con i traffici d’arte “ci manteniamo la famiglia”.
Matteo che ereditò la passione del padre quando tentò il furto del Satiro Danzante, il reperto bronzeo opera di Prassitele recuperato nel 1998 dal peschereccio Capitan Ciccio nel Canale di Sicilia. Il furto fu commissionato da Matteo Messina Denaro a Mariano Concetto, il pentito marsalese, un ex vigile urbano al soldo della cosca di Marsala, che riferì che il Satiro doveva essere commercializzato “attraverso canali svizzeri”, quelli di Becchina. Ma il piano saltò: mentre il Satiro era custodito in una stanza del Municipio di Mazara, fu riferito al pentito marsalese che "abbiamo chi ci darà le chiavi della stanza in cui il Satiro è custodito". Quelle chiavi non le ebbero mai, Matteo Messina Denaro ordinò un vero e proprio assalto armato al municipio di Mazara del Vallo. "Ci fece sapere che non ci avrebbe dato un soldo e che se ci fossimo lamentati saremmo finiti in un canale", raccontò poi il pentito. Qualche giorno prima del furto, le misure di sorveglianza attorno alla statua furono rafforzate e il Satiro fu trasferito negli uffici dell'Istituto centrale di restauro a Roma e successivamente a Mazara del Vallo.
16 gennaio 2023, l’arresto del boss che leggeva libri d’arte e che nel 1993 sceglieva come obiettivi i monumenti d’arte per gli attentati di Milano, Roma e Firenze.
Rosalba Pipitone
Fonte: https://www.giornatedisicilia.it/2023/01/17/4465/